lunedì 23 febbraio 2015

I "danni permanenti" e danni preesistenti.

 Dopo l'invasione dei barbari del Feyenoord a Roma e la vandalizzazione di alcune aree del centro storico, in particolare Piazza di Spagna con la Barcaccia del Bernini, spesso sui giornali veniva riportata questa immagine, indicando un presunto danno.

Foto 1. Immagine da Corriere.it

Visitando Google StreetView di Maps, possiamo notare la stessa fontana del Bernini nel 2014. Già restaurata ma con le stesse lacune, non imputabili dunque agli scontri delle recenti cronache nella loro interezza (così come riportato in foto 1).

Foto 2. Immagine da Google Maps (2014)
Ciò risulta compatibile con i ritrovamenti di soli due frammenti di travertino nella vasca. Dunque il danno c'è stato, ma non va immaginato secondo i danni "evidenti" riportati da alcuni organi di stampa. Aspettiamo dunque i risultati ufficiali della Soprintendenza.

mercoledì 11 febbraio 2015

FLASH: Se la fontanina antica diventa un mondezzaio

Una delle fontane pubbliche di Rovereto (TN), dopo secoli di Storia si ritrova circondata dai rifiuti. Differenziati però.
Un'altra collocazione per i bidoni no, eh?

La fontana in vicolo S,Maria a Rovereto (TN).

giovedì 29 gennaio 2015

A Vicenza il Bramante Architetto

Il bell’omaggio a Bramante Architetto del Palladio Museum di Vicenza, in occasione del cinquecentenario dalla morte, è semplice e arricchisce il visitatore. Integrato nel biglietto di ingresso al Museo (6 euro), rimanendo lontani da sfarzose o mistificanti pomposità, a Bramante viene dedicata una stanza dell’interessante percorso espositivo. Una serie di pannelli espositivi, con forte valenza didattica, sintetizzano gli studi di Christof Thoenes (con disegni di Alina Aggujaro) su alcune opere dell’architetto di Fermignano, con particolare risalto ad una dei progetti principe: la nuova Basilica di S.Pietro in Roma. Attraverso la schematizzazione dei procedimenti e la scomposizione dei progetti di Bramante, le modifiche effettuate in itinere e l’influenza sugli architetti intervenuti successivamente, si narra un progetto fondamentale per l’Architettura occidentale. Secondo quest’ultima ottica, ad omaggiare Bramante anche due disegni in cui il Palladio studia due opere bramantesche. Ed infine, riparato da un pannello curvo a mo’ di carapace, l’esposizione del disegno autografo del Bramante per la Basilica di San Pietro, proveniente dal Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze, noto come Uffizi 20A. Quest’ultimo accompagnato da un video didattico che lo analizza spiegandone le caratteristiche in maniera semplice ed efficace. 
Non delude le aspettative, a differenza della Mostra sul Bramante Artista a Milano, di cui ho parlato qui.

A Vicenza fino all’8 febbraio 2015.

Uffizi 20A - immagine http://www.artemagazine.it/

Bramante a Milano, tra stupore e delusione

Bramante a Milano: così recita il titolo della mostra organizzata presso la Pinacoteca di Brera in occasione del cinquecentenario dalla morte dell’artista (n. 1444 m. 1514). Sottotitolo: Le Arti in Lombardia 1477-1499, da tener ben presente – ed adesso vedremo il perché – qualora vogliate visitare la mostra. Si analizza la presenza di Bramante a Milano, documentata nel 1477 finirà nel 1499, anno in cui – caduto Ludovico il Moro – si trasferisce a Roma dove troverà importanti incarichi e dove morirà nel 1514.


La mostra è integrata all’esposizione permanente delle opere di Brera e dislocata dunque “a bocconi” nelle varie sale.

Avendo già visitato Brera, la mia intenzione è quella di visitare la sola mostra di Bramante. Mi dirigo dunque in biglietteria e – non essendoci un biglietto per la sola Mostra (anche perché, viceversa, non c’è un supplemento per la mostra aggiunto al biglietto per la Pinacoteca di Brera) – acquisto il normale biglietto d’ingresso (10 euro) e mi dirigo a caccia delle opere dislocate nelle varie sale. Impresa non semplice, in quanto le opere sono sì segnalate da un cartello esplicativo di colore rosso, ma di dimensioni ridotte e dunque non di immediata visibilità. Ad aggiungere confusione, alcuni cartelli a forma di frecce che indicano una direzione “Mostra” in un verso lungo il quale capita di trovare, pochi metri più avanti, un cartello identico indicante la mostra ma nel verso totalmente opposto.

a sinistra il cartello con freccia indicante la mostra e, subito dopo, il cartellino rosso della mostra.

A destra il cartello con freccia indicante la direzione mostra, nel verso opposto al precedente. Il cartello rosso delle opere in mostra illustra un'opera normalmente esposta in Brera.
Identificate le opere, ci si accorge pian piano che quelle di Bramante sono in netta minoranza, in discordanza con quanto percepito dalla Brochure della Mostra, che recita: “La raccolta di tutto il corpus pittorico di Bramante è accompagnata in mostra dalle opere dei suoi maestri e dei protagonisti indiscussi della pittura rinascimentale in Lombardia”, facendo immaginare – almeno ai miei occhi – una prevalenza di Bramante sugli altri artisti e non viceversa. D’altronde, l’ingresso della Pinacoteca è costellato da enormi scritte a caratteri cubitali che recitano “Bramante a Milano”. 

Via via che si osservano le opere si nota come la presenza di Bramante non solo è in minoranza, ma circa la metà delle sue opere esposte fanno parte normalmente della Pinacoteca. Ho contato infatti circa 40 opere accompagnate dal cartello ufficiale della mostra e di queste solo 14 appartengono al Bramante; tra quest’ultime solo 7 sono opere arrivate da altri musei o collezioni, mentre le restanti 7 appartengono normalmente a Brera.

La delusione è al massimo. Mi si potrebbe dire che la Mostra in questione è compresa nel biglietto d’ingresso alla Pinacoteca: bene, tutto sommato. Purtroppo la Pinacoteca il 31 dicembre 2014 contava come non visitabili otto sale, senza alcuna riduzione del biglietto di ingresso in seguito all’inconveniente.


giovedì 4 dicembre 2014

Tra Pubblico e Privato


Continua la querelle tra Vittorio Sgarbi - organizzatore della mostra "Da Cimabue a Morandi" presso Palazzo Fava a Bologna, per Genus Bononiae e la Fondazione Carisbo - e i difensori dei Musei Civici della città - primo tra tutti Daniele Benati, professore di Storia dell'Arte e Presidente di Italia Nostra Bologna - costituitisi sotto una raccolta firme diretta al Ministro Franceschini che ha raccolto oltre 130 tra Professori Universitari e esperti del settore. 
Sgarbi è reo di aver ideato una Mostra per una Fondazione Privata attraverso il prestito di opere provenienti dai Musei cittadini (pubblici) all'interno di uno spazio "privato", Palazzo Fava. La mostra «è priva di alcun disegno storico e della benché minima motivazione scientifica, un insulto alle opere, trattate come soprammobili e all'intelligenza del pubblico» tuonano i 130. Sgarbi li querela tutti e denuncia Benati ai Carabinieri di Roma come persona informata sui fatti per «non aver tutelato la Madonna di Annibale Carracci venduta alla casa d’aste viennese Dorotheum a poco meno di 400mila euro». Inoltre fa notare come «il quadro di Raffaello è stato prestato anche ad un museo di Parigi ma nessuno ha protestato». Il ministro Franceschini, tirato in ballo, si tira fuori: «Bloccarla? Che strumenti ho per bloccarla? Ci mancherebbe altro, non è una mostra del Ministero» «Bisogna rompere l’idea che la collaborazione tra pubblico e privato sia negativa». E la battaglia continua. 
"Un insulto all'intelligenza del pubblico". Bah. Intanto, però, i Beni culturali vengono quotidianamente distrutti dall'incuria e dall'ignoranza. Ed Italia Nostra ha sempre lavorato contro questo disastro. Forse è ora che si dia più risalto mediatico - alzando la voce su altri argomenti - alle emergenze culturali vere di questo Paese?

foto da: ilrestodelcarlino.it

giovedì 31 luglio 2014

Salviamo la dignità


Dignità

E' questa la parola chiave su cui bisogna incentrare l'attenzione. La dignità dell'individuo, quella che si sta pian piano perdendo e che continuerà a perdersi senza un intervento forte e deciso sul piano del lavoro.
La dignità, sancita dalla nostra Costituzione Repubblicana:

"Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [...] E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese." (Art.3)  


"La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società." (Art.4)


Di oggi la notizia che la disoccupazione giovanile (18-24 anni) continua ad aumentare (il 43,7% è senza lavoro) raggiungendo il massimo livello mai registrato da ISTAT. Ma non bisogna soffermarsi solo su questo dato, perché esiste una fascia d'età sempre dimenticata nelle discussioni sul lavoro, quella degli over 29 che, in un Paese come il nostro, è ancora da considerarsi giovane. Chi è in quella fascia è dentro un limbo dal quale è difficile uscire: prendendo in pieno l'ondata della crisi, intorno al 2012, si ritrova oggi con scarsa esperienza lavorativa (troppe porte chiuse nel periodo dell'apprendistato) e con delle leggi che continuano a favorire i contratti per gli under 30 (ultimamente, gli under 29). Chi si trova in quella fascia è troppo vecchio per (continuare a) imparare, troppo vecchio per un apprendistato ma troppo poco esperto. Normalmente, ad un "adulto", vengono richiesti 3-5 anni di esperienza lavorativa in un ambito, che a causa della crisi è stato impossibile accumulare. Si trova in una situazione analoga chi, di quella stessa fascia d'età, il lavoro l'ha perso o semplicemente non ha visto rinnovato un contratto a termine.
Ritrovarsi a trenta, trentacinque anni senza la possibilità di lavorare è psicologicamente logorante, credo (mi permetto di dirlo) più che per un ragazzo di vent'anni. I suoi vent'anni sono ancora intrisi di spensieratezza, i trenta ed i quaranta non più. E finché esisteranno gli "ammortizzatori sociali italiani", positivamente o negativamente li si voglia giudicare, ovvero le famiglie che ci sostengono (e che così facendo hanno coperto le spalle all'ipocrisia di molti Governi), questo Paese riuscirà a sopravvivere. Ma quel sostegno non è eterno. Senza di esso, nel Paese, le diseguaglianze sociali e la povertà porterebbero al crescere di disordini senza precedenti. Quando essi si affievoliranno, quella prospettiva potrebbe essere molto vicina. Si vuole dunque arrivare ad una crisi di quel livello?
In ogni caso, dover chiedere aiuto alle famiglie, già a loro volta colpite dalla crisi e dalla incombenze che normalmente vanno sostenute, è umiliante sia per chi l'aiuto lo chiede, sia per chi riceve la richiesta. Va a toccare e lede quell'aspetto della dignità individuale legato al benessere sociale ed umano. Chiede un sacrificio socialmente ingiusto. E noi siamo stanchi di sopportarlo. Vorremmo salvare almeno la dignità. E di conseguenza, la libertà.

La libertà è prima di tutto l’esaltazione della dignità del singolo. Ma come può vedere esaltata la sua dignità chi non ha lavoro, chi è affamato, chi non ha casa, chi è costretto quasi a mendicare? Chi è in queste condizioni sente umiliata la sua dignità: quindi non sarà mai un uomo libero. Ecco perché voglio anche la giustizia sociale, le riforme profonde in base alle quali ogni uomo possa vivere degnamente la sua vita. Ma nello stesso tempo devo affermare che la giustizia sociale, senza libertà, io la respingo decisamente: non mi basta, non mi interessa. Sandro Pertini

martedì 18 giugno 2013

Se soffocano i pezzi della nostra Storia, stretti dalla morsa delle "catene"


Sono stato di recente a Verona, insieme a chi la città la conosce meglio di me. Mi piacciono le librerie, quelle alla vecchia, quelle in cui ti perdi ad osservare nei dettagli vecchi e fascinosi volumi. La libreria Ghelfi e Barbato è un'istituzione, da quello che capisco dalla descrizioni della mia compagna. Arrivati all'angolo tra via Mazzini e via della Scala, la libreria non esiste più. O meglio, permane la storica insegna. Dentro, invece, al posto dei libri ci sono costumi da bagno e completini intimi di una nota catena italiana. Oggi il turista che arriva legge l'insegna "Libreria" ma in vetrina trova mutande.


La storica libreria ora sede di un negozio di una catena di intimo. 

"Al suo interno la libreria offriva, oltre ai testi di narrativa più richiesti, una selezione di titoli ricercati e testi di pregio, dai libri d’arte ai libri di fotografia, a quelli di collezione. Il turista esperto del settore o il lettore appassionato giungeva da tutto il mondo a Verona per apprezzare la nostra offerta" racconta Stefano Grosso, titolare della libreria. La decisione della chiusura avvenuta a maggio - racconta il titolare - "è maturata in seguito ad una serie di difficoltà, causate principalmente dall’apertura di numerose nuove librerie, che hanno letteralmente saturato il mercato del libro. Sicuramente è stata determinante l’apertura delle librerie di catena, ma c’è da considerare un dato importante: nell’ultimo anno Verona è arrivata ad ospitare quasi 30 librerie, un numero decisamente alto per una città così piccola. Nel frattempo il prezzo degli affitti, che è letteralmente esploso, ci ha dato il colpo di grazia.
La libreria è comunque rinata dalle proprie ceneri in un contesto più svantaggiato, sia per posizione che per questioni logistiche. "Ci piacerebbe moltissimo riproporre quella selezione di qualità libraria che caratterizzava la Ghelfi e Barbato e sono sicuro che riusciremo a farlo, ma prima abbiamo bisogno di reinventarci" dice Stefano Grosso, oggi titolare della Libreria Grosso.

La libreria storica Ghelfi e Barbato, con a sinistra l'indicazione verso una libreria di catena.

Non a caso accanto alla libreria storica che ha appena chiuso, a 5 mt di distanza un cartello avverte della presenza, 10 mt a sinistra, di una famosa libreria di catena. Per carità, chi non c'è mai entrato scagli la prima pietra; ho grande rispetto per la storia di quell'Editore. Però non c'è dubbio - e chi è capace mi dimostri il contrario - che certe grandi catene siano dei nonluoghi. Come spiega Marc Augè, "se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un nonluogo. L'ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità baudeleriana, non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati, promossi a «luoghi della memoria», vi occupano un posto circoscritto e specifico".
Bisogna riflettere sul soffocamento delle librerie storiche indipendenti e rendere noti a tutti i meccanismi con cui le piccole librerie acquistano con prezzi maggiori dai fornitori rispetto alle librerie di catena. Questo è uno dei tanti casi di librerie storiche italiane che sono state costrette alla chiusura e che sicuramente meriterebbero un commento, alla pari di questa. Cosa diversa accade in Francia, dove le librerie indipendenti godono di un sostegno finanziario da parte del governo e dove si va verso forme di garanzia nei confronti del prezzo unico del libro da parte di tutti gli attori della filiera. 

Se andrete nella libreria sulla sinistra, in più, avrete sicuramente un bistrot.

Fonti bibliografiche:
- Intervista a Stefano Grosso su Liberiamo.ithttp://www.libreriamo.it/a/2999/stefano-grosso-ho-chiuso-la-mia-libreria-in-centro-ma-la-storia-continua-.aspx
- Marc Augé, nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Ed. Elèuthera.

mercoledì 12 giugno 2013

Hai la bici? Prendi il treno! (ma armati di tanta pazienza...)

Questa pubblicità allegata, fatta in occasione di una campagna FIAB, dà un'immagine rose e fiori del funzionamento treno+bici offerto sui regionali di Trenitalia. In realtà non è proprio così. Di regola, il servizio trasporto bici è segnalato sull'orario ufficiale con il simboletto raffigurante una bicicletta. Praticamente ormai il servizio è segnalato su tutti i treni regionali. Ma, ovviamente, capita spesso di non trovare effettivamente il vagone adibito al trasporto... Ed a volte ti spacciano per vagone una parte della motrice con una porticina che puoi raggiungere solo dopo tre alti scalini, che pure se fossi con le mani libere sarebbe un po' difficile salirci. Altre volte il vagone non c'è proprio e devi arrangiarti. 
Inoltre, non è garantito dove l'ambìto vagone è situato... può essere in testa come in coda... adesso capirete bene che non è proprio la stessa cosa. Pensate di essere nella stazione di Bologna o di Roma (per citarne alcune tra le più frequentate): banchine affollate dalla gente che aspetta il tuo treno, che aspetta quello del binario accanto e che poi sarà occupata anche dalla gente che scenderà. Dove sarà il vagone per le bici? Che si fa, si aspetta in mezzo? No, magari rischio e vado in testa... Il treno arriva, no! E' in coda! E fatti tuoi poi percorrere, con una bicicletta, la banchina ora affollata anche dalla gente che scende, mentre i passeggeri in salita fanno capannello vicino alle porte. Ma può pure succedere che, una volta percorsi tutti i vagoni (ed i treni regionali non sono corti), scopri che il vagone per le bici non esiste. Eppure il supplemento bici l'ho pagato; e non è rimborsabile. E' una situazione accettabile, questa, in un Paese da definirsi civile? Aggiungiamo anche questa figuraccia agli occhi dei turisti che, soprattutto nel nord Italia, arrivano dal centro-europa in bici e cercano di utilizzare il servizio.
Io ho provato a percorrere su tre regionali il percorso Udine-Piacenza: 1° treno Udine-Venezia Mestre, il servizio non c'è (solo un piccolo spazio sul locomotore, quello di cui sopra da arrampicarcisi); 2° treno Venezia Mestre - Bologna, il servizio c'è (fortuna!); 3° treno Bologna-Piacenza, il servizio non c'è (neppure arrampicandosi in cima al locomotore).
Potremmo essere il Paese più bello al mondo. Ma non lo siamo, perdiamo sul campo della civiltà. Salviamolo!



sabato 1 giugno 2013

Il coraggio di dire no. Lezione di Vittorio Sgarbi.

Uno Sgarbi condivisibile quasi al 100%. A parte la provocazione dell'inglobamento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel Ministero dell'Economia, non concordo totalmente sulla ricostruzione "dov'era, com'era" da lui professata. Ma capisco benissimo l'orrore di certe scelte scellerate del "dov'era ma non com'era"; sostengo la distinguibilità ma sono consapevole di come l'Architettura contemporanea sia ormai totalmente incapace di dialogare con i centri storici. E nella scelta, tra le due realtà, forse penderei anche io verso quella da lui sostenuta. Almeno un po'. Per cui ritengo questo discorso di Vittorio Sgarbi davvero notevole e perfetto per l'idea con cui è nato questo blog! Da ascoltare!


mercoledì 29 maggio 2013

l'Insulto quotidiano n.1

n 1


Dedico questo primo "numero" della rubrica (dedicata agli insulti che quotidianamente RICEVIAMO), ai cari studi di architettura che non ti rispondono mai quando mandi loro il tuo curriculum.
Cari colleghi, vi lamentate (giustamente) tutti che non avete lavoro. Vi sto visitando tutti, uno ad uno, e ricevo sempre la stessa risposta, che suona così: è un momentaccio, non abbiamo lavori. Allora avrete sicuramente tempo per rispondere alle e-mail! Non pensate sia una questione di rispetto, soprattutto tra colleghi? Perché in Paesi civilizzati all'invio di un cv ti rispondono sempre?
Lo so, sono tanti quelli che scrivono mandando i cv. Ma voi non vi sentireste un po' trattati male se scrivendo ad un vostro collega, questo non vi rispondesse?

Vi do un consiglio geniale: se non volete fare un difficilissimo e fantascientifico sistema di risposta automatica, con un indirizzo e-mail apposito, seguitemi passo passo:
- prendete un file di testo.
- scriveteci solo 10-12 parole: in questo momento lo Studio è al completo, ma terremo presente la Sua candidatura. Salvate il  file !!!

- all'occorrenza fare copia - incolla nel testo di risposta della mail ricevuta!
L'operazione necessita di 30 secondi. Ci sentiremo tutti un po' più degni di praticare (o cercare di fare) la Nostra amata Professione. Vi ringrazio tanto! A presto!


NB: Negli ultimi 11 mesi, su 65 cv inviati ho ricevuto 3 o 4 risposte.

venerdì 17 maggio 2013

Ne vale ancora la pena?


Nel 2008 esce con Guanda un libro intitolato "Metropoli per Principianti" scritto da Gianni Biondillo, architetto. Una parte del libro tratta della condizione degli architetti italiani.



“Non fate studiare Architettura ai vostri figli. Non ne vale la pena.

Vi ritrovereste con dei figli frustrati, incapaci di relazionarsi con il mondo del lavoro: troppo tecnici per gli artisti, troppo artisti per i tecnici, né carne nè pesce, insomma. Se lo fate per il prestigio, meno che meno. Non esiste categoria più bistrattata, sfottuta, derisa: dai padroni di casa, dagli imprenditori edili, dai muratori, dagli ingegneri, dai geometri. Un incubo.

Tanto ve lo dico subito, il lavoro (di architetto intendo) non lo trova. A meno che non abbiate la pazienza infinita di vederlo leccare i piedi nello studio di qualche affermato professionista per anni. Per dodici-sedici ore al giorno: a tirare linee, a disegnare sempre e solo scale di sicurezza o pozzetti d’ispezione, e tutto gratis o per un ridicolo rimborso spese. Tutto questo per poter mettere sul curriculum, dopo essere stato spremuto come un limone, di aver lavorato per lo stimato professionista. Che non serve a nulla. Perché se si va a fare un colloquio con un altro stimato, stimatissimo professionista, si ritorna nel girone infernale dei pozzetti di ispezione e dei rimborsi spesa ridicoli. E allora si smette di farsi belli di cotanto curriculum e si cerca di tutto; tutto quello che capita diventa ossigeno: e si passa per studi di ingegneria, con i tuoi cugini del Politecnico che ti guardano ridacchiando sotto i baffi, trattandoti come una burba in una caserma punitiva o, peggio, per sperduti uffici di geometri specializzati in pratiche catastali. Che ti chiedono, come al solito, dato che te lo chiedono da anni: “ma sei un architetto di interni o di esterni?” E tu che proprio non sai rispondere, perché la domanda è assolutamente incomprensibile: dal cucchiaio alla città, ti avevano insegnato in facoltà. L’architetto si occupa di tutto, dal cucchiaio alla città, come si può pensare che uno si fermi agli interni e che un altro si occupi degli esterni? Ma l’architettura non era il gioco sapiente dei volumi sotto la luce del sole? Non era una totalità inscindibile?

Vivo in Italia, nel paese col più alto numero di laureati in architettura d’Europa e col più basso numero di opere edili progettate da architetti, ed ho una vita sola.

Voglio sposarmi, avere dei figli, non posso aspettare per tutta la vita. Il mio diploma di laurea è appeso nel cesso. Eccomi Italia. Fa di me quello che vuoi.

Gregotti aveva ragione: in Italia l’architettura non è una disciplina meritocratica. Fare architettura è innanzi tutto un privilegio di casta. Non dico che gli architetti italiani famosi nel mondo non siano bravi: alcuni di loro sono di levatura internazionale di qualità eccelsa, almeno un paio sfiorano il geniale. Solo che, semplicemente, a loro è stato permesso di dimostrarlo. Ma che ne è di tutti quelli che a parità creativa non riusciranno nemmeno a fare una villetta in campagna? Che né è di quelli che, dopo anni a disbrigare le pratiche accademiche dei loro baroni, esasperati da quindi anni di precariato intellettuale, mollano tutto e vanno a fare i tecnici comunali?

Se insistete e davvero volete iscrivere i vostri virgulti in quelle bolge dantesche che sono le facoltà di architettura italiane, bè, allora fatelo! Ma fatelo davvero. Perché in fondo, se non siete i genitori ricchi consigliati da Gregotti e se nulla programmate di concreto per il futuro dei vostri figli e siete fervidi credenti nella provvidenza divina, di certo state facendo frequentare loro la più bella delle facoltà universitarie, la più stimolante, la più variegata. Perché l’architettura è una disciplina che si pone in un crocevia dove soffia da una parte il vento della cultura umanistica e dall’altra quello della cultura scientifica e dell’innovazione. Perchè un architetto deve sapere di tecnologia, di sociologia, di storia dell’arte, di restauro, di tecnica delle costruzioni, di estetica, di urbanistica, di composizione. Perché è l’ultima disciplina ancora perfettamente rinascimentale, dove tutto rimanda ad un tutto. Di quelli che si laureano pochi faranno la professione, ma tutti sapranno trovarsi un lavoro, qualunque lavoro. Perché la disciplina dell’architettura prevede una flessibilità mentale, una capacità di adattamento alle situazioni, un senso di progetto, che servono a prescindere dal lavoro che stai facendo. […] L’altro grande dono che ti da è lo sguardo. La capacità di interpretare lo spazio, di dialogare con le forme, di comprendere il potenziale iconografico del reale e del virtuale.

Quindi, massì, mandatelo pure vostro figlio a studiare architettura. Fatelo. Impegnatevi a pagare le tasse, il posto letto proibitivo se abitate fuori sede, le copie, le fotocopie, i libri, i programmi cad, le attrezzature, tutto. Fatelo laureare. Poi però mandatelo all’estero. Che qui non c’è speranza.”

mercoledì 17 aprile 2013

Il sindaco di Firenze vuole i minuti contati

L'orologio della torre di Arnolfo di Cambio a Firenze, quella di Palazzo Vecchio per intenderci, ha un orologio con una sola lancetta che segna le ore. Qualcuno ci avrà fatto caso: per sapere che ora è bisogna fare un piccolo sforzo e capire le mezzore ed i quarti d'ora attraverso la posizione della lancetta delle ore sul quadrante. Qualche ironia si può anche fare, ma l'orologio non ha perso i minuti per qualche strano mistero, è così dal Seicento.
Già nel 1353 (il 25 marzo) sulla torre di Palazzo Vecchio era stato installato un orologio meccanico, ad opera di Nicolò di Bernardo. Fu il primo orologio pubblico della città ma necessitava di frequenti correzioni utilizzando una meridiana posta all'esterno della torre, in un punto non visibile. Il meccanismo fu variato nel 1667 da Giorgio Lederle di Augusta ed è quello tutt'ora funzionante. Fu aggiunto un lungo pendolo sfruttando gli studi di Galileo Galilei sulle sue oscillazioni e sull'opportunità che il pendolo offriva per il funzionamento degli orologi.  Fu oggetto di restauro nella campagna 2002-2005 di lavori sull'intera torre campanaria ed è tornato in funzione dal 2008. 
Adesso il sindaco di Firenze, in una dichiarazione del 17 aprile 2013 durante una riunione in Comune, dice:
"io gradirei avere un'ipotesi di un orologio che segna l'ora. L'orologio che fa fare riflessioni filosofiche va bene ai fessi" "vi domando: ma vi costa parecchia fatica metterci un'altra stanghetta?" 
L'assessore alla cultura cerca di fargli capire: "quel meccanismo, che è settecentesco, prevede una sola lancetta ed un contrappeso. Se tu vuoi l'orologio come quello che abbiamo al polso tutti noi, devi cambiare il meccanismo..."
E lui: "e v'offendete parecchio se si trova uno sponsor privato" che cambi il meccanismo?
L'assessore: "Ma perché lo devi cambiare? è così bello quello..! Uno dice: che ore sono? l'una e diciassette; forse no, l'una e venti"
Il sindaco: "io mi fermerei di fronte all'ordinario di Estetica, ancor prima che Assessore alla Cultura" ma "non vi sto chiedendo di mettere l'orologio digitale della Casio. Vi sto chiedendo se si può mettere un orologio bello che funziona". 
Ed a qualcuno che propone di fare un opuscolo su come funziona l'orologio o una lezione sotto la torre, lui ironizza: "te sulla semplificazione amministrativa..eh?! Si fa l'opuscolo..!".

E' come se io proponessi di mettere l'orologio al quarzo ad una meridiana perché quando c'è nuvolo non segna l'ora...
Non è la prima uscita del genere: nel 2011 c'era stata la proposta di costruire la facciata michelangiolesca della Basilica di S.Lorenzo, mai realizzata; nel 2012 l'idea di pavimentare con il cotto Piazza della Signoria.

A colpi di rottamazione, si vuole rottamare pure un bene culturale per mere (e poco sensate) esigenze funzionali: i turisti non lo capiscono e pensano non funzioni, pare abbia affermato. I turisti leggeranno l'ora sullo smartphone, ho pensato io. E poi si vorrebbe cancellare una peculiarità per sostituirla con una banalità? Perché invece non valorizzare la singolarità di un orologio con una lancetta sola? Quanti di quei turisti proprio per quel motivo lo osservano e lo ammirano?

Meno male che il sindaco, durante le primarie del centrosinistra, puntava alla cultura ed alla vocazione italiana alla qualità. Ma è credibile da uno che vuole modificare un orologio seicentesco simbolo di Firenze solo perché non ha la lancetta dei minuti?  Lascio a voi la sentenza. 

L'orologio di Palazzo Vecchio (foto tratta da larivistaculturale.com)