martedì 18 giugno 2013

Se soffocano i pezzi della nostra Storia, stretti dalla morsa delle "catene"


Sono stato di recente a Verona, insieme a chi la città la conosce meglio di me. Mi piacciono le librerie, quelle alla vecchia, quelle in cui ti perdi ad osservare nei dettagli vecchi e fascinosi volumi. La libreria Ghelfi e Barbato è un'istituzione, da quello che capisco dalla descrizioni della mia compagna. Arrivati all'angolo tra via Mazzini e via della Scala, la libreria non esiste più. O meglio, permane la storica insegna. Dentro, invece, al posto dei libri ci sono costumi da bagno e completini intimi di una nota catena italiana. Oggi il turista che arriva legge l'insegna "Libreria" ma in vetrina trova mutande.


La storica libreria ora sede di un negozio di una catena di intimo. 

"Al suo interno la libreria offriva, oltre ai testi di narrativa più richiesti, una selezione di titoli ricercati e testi di pregio, dai libri d’arte ai libri di fotografia, a quelli di collezione. Il turista esperto del settore o il lettore appassionato giungeva da tutto il mondo a Verona per apprezzare la nostra offerta" racconta Stefano Grosso, titolare della libreria. La decisione della chiusura avvenuta a maggio - racconta il titolare - "è maturata in seguito ad una serie di difficoltà, causate principalmente dall’apertura di numerose nuove librerie, che hanno letteralmente saturato il mercato del libro. Sicuramente è stata determinante l’apertura delle librerie di catena, ma c’è da considerare un dato importante: nell’ultimo anno Verona è arrivata ad ospitare quasi 30 librerie, un numero decisamente alto per una città così piccola. Nel frattempo il prezzo degli affitti, che è letteralmente esploso, ci ha dato il colpo di grazia.
La libreria è comunque rinata dalle proprie ceneri in un contesto più svantaggiato, sia per posizione che per questioni logistiche. "Ci piacerebbe moltissimo riproporre quella selezione di qualità libraria che caratterizzava la Ghelfi e Barbato e sono sicuro che riusciremo a farlo, ma prima abbiamo bisogno di reinventarci" dice Stefano Grosso, oggi titolare della Libreria Grosso.

La libreria storica Ghelfi e Barbato, con a sinistra l'indicazione verso una libreria di catena.

Non a caso accanto alla libreria storica che ha appena chiuso, a 5 mt di distanza un cartello avverte della presenza, 10 mt a sinistra, di una famosa libreria di catena. Per carità, chi non c'è mai entrato scagli la prima pietra; ho grande rispetto per la storia di quell'Editore. Però non c'è dubbio - e chi è capace mi dimostri il contrario - che certe grandi catene siano dei nonluoghi. Come spiega Marc Augè, "se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un nonluogo. L'ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità baudeleriana, non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati, promossi a «luoghi della memoria», vi occupano un posto circoscritto e specifico".
Bisogna riflettere sul soffocamento delle librerie storiche indipendenti e rendere noti a tutti i meccanismi con cui le piccole librerie acquistano con prezzi maggiori dai fornitori rispetto alle librerie di catena. Questo è uno dei tanti casi di librerie storiche italiane che sono state costrette alla chiusura e che sicuramente meriterebbero un commento, alla pari di questa. Cosa diversa accade in Francia, dove le librerie indipendenti godono di un sostegno finanziario da parte del governo e dove si va verso forme di garanzia nei confronti del prezzo unico del libro da parte di tutti gli attori della filiera. 

Se andrete nella libreria sulla sinistra, in più, avrete sicuramente un bistrot.

Fonti bibliografiche:
- Intervista a Stefano Grosso su Liberiamo.ithttp://www.libreriamo.it/a/2999/stefano-grosso-ho-chiuso-la-mia-libreria-in-centro-ma-la-storia-continua-.aspx
- Marc Augé, nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Ed. Elèuthera.

mercoledì 12 giugno 2013

Hai la bici? Prendi il treno! (ma armati di tanta pazienza...)

Questa pubblicità allegata, fatta in occasione di una campagna FIAB, dà un'immagine rose e fiori del funzionamento treno+bici offerto sui regionali di Trenitalia. In realtà non è proprio così. Di regola, il servizio trasporto bici è segnalato sull'orario ufficiale con il simboletto raffigurante una bicicletta. Praticamente ormai il servizio è segnalato su tutti i treni regionali. Ma, ovviamente, capita spesso di non trovare effettivamente il vagone adibito al trasporto... Ed a volte ti spacciano per vagone una parte della motrice con una porticina che puoi raggiungere solo dopo tre alti scalini, che pure se fossi con le mani libere sarebbe un po' difficile salirci. Altre volte il vagone non c'è proprio e devi arrangiarti. 
Inoltre, non è garantito dove l'ambìto vagone è situato... può essere in testa come in coda... adesso capirete bene che non è proprio la stessa cosa. Pensate di essere nella stazione di Bologna o di Roma (per citarne alcune tra le più frequentate): banchine affollate dalla gente che aspetta il tuo treno, che aspetta quello del binario accanto e che poi sarà occupata anche dalla gente che scenderà. Dove sarà il vagone per le bici? Che si fa, si aspetta in mezzo? No, magari rischio e vado in testa... Il treno arriva, no! E' in coda! E fatti tuoi poi percorrere, con una bicicletta, la banchina ora affollata anche dalla gente che scende, mentre i passeggeri in salita fanno capannello vicino alle porte. Ma può pure succedere che, una volta percorsi tutti i vagoni (ed i treni regionali non sono corti), scopri che il vagone per le bici non esiste. Eppure il supplemento bici l'ho pagato; e non è rimborsabile. E' una situazione accettabile, questa, in un Paese da definirsi civile? Aggiungiamo anche questa figuraccia agli occhi dei turisti che, soprattutto nel nord Italia, arrivano dal centro-europa in bici e cercano di utilizzare il servizio.
Io ho provato a percorrere su tre regionali il percorso Udine-Piacenza: 1° treno Udine-Venezia Mestre, il servizio non c'è (solo un piccolo spazio sul locomotore, quello di cui sopra da arrampicarcisi); 2° treno Venezia Mestre - Bologna, il servizio c'è (fortuna!); 3° treno Bologna-Piacenza, il servizio non c'è (neppure arrampicandosi in cima al locomotore).
Potremmo essere il Paese più bello al mondo. Ma non lo siamo, perdiamo sul campo della civiltà. Salviamolo!



sabato 1 giugno 2013

Il coraggio di dire no. Lezione di Vittorio Sgarbi.

Uno Sgarbi condivisibile quasi al 100%. A parte la provocazione dell'inglobamento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel Ministero dell'Economia, non concordo totalmente sulla ricostruzione "dov'era, com'era" da lui professata. Ma capisco benissimo l'orrore di certe scelte scellerate del "dov'era ma non com'era"; sostengo la distinguibilità ma sono consapevole di come l'Architettura contemporanea sia ormai totalmente incapace di dialogare con i centri storici. E nella scelta, tra le due realtà, forse penderei anche io verso quella da lui sostenuta. Almeno un po'. Per cui ritengo questo discorso di Vittorio Sgarbi davvero notevole e perfetto per l'idea con cui è nato questo blog! Da ascoltare!


mercoledì 29 maggio 2013

l'Insulto quotidiano n.1

n 1


Dedico questo primo "numero" della rubrica (dedicata agli insulti che quotidianamente RICEVIAMO), ai cari studi di architettura che non ti rispondono mai quando mandi loro il tuo curriculum.
Cari colleghi, vi lamentate (giustamente) tutti che non avete lavoro. Vi sto visitando tutti, uno ad uno, e ricevo sempre la stessa risposta, che suona così: è un momentaccio, non abbiamo lavori. Allora avrete sicuramente tempo per rispondere alle e-mail! Non pensate sia una questione di rispetto, soprattutto tra colleghi? Perché in Paesi civilizzati all'invio di un cv ti rispondono sempre?
Lo so, sono tanti quelli che scrivono mandando i cv. Ma voi non vi sentireste un po' trattati male se scrivendo ad un vostro collega, questo non vi rispondesse?

Vi do un consiglio geniale: se non volete fare un difficilissimo e fantascientifico sistema di risposta automatica, con un indirizzo e-mail apposito, seguitemi passo passo:
- prendete un file di testo.
- scriveteci solo 10-12 parole: in questo momento lo Studio è al completo, ma terremo presente la Sua candidatura. Salvate il  file !!!

- all'occorrenza fare copia - incolla nel testo di risposta della mail ricevuta!
L'operazione necessita di 30 secondi. Ci sentiremo tutti un po' più degni di praticare (o cercare di fare) la Nostra amata Professione. Vi ringrazio tanto! A presto!


NB: Negli ultimi 11 mesi, su 65 cv inviati ho ricevuto 3 o 4 risposte.

venerdì 17 maggio 2013

Ne vale ancora la pena?


Nel 2008 esce con Guanda un libro intitolato "Metropoli per Principianti" scritto da Gianni Biondillo, architetto. Una parte del libro tratta della condizione degli architetti italiani.



“Non fate studiare Architettura ai vostri figli. Non ne vale la pena.

Vi ritrovereste con dei figli frustrati, incapaci di relazionarsi con il mondo del lavoro: troppo tecnici per gli artisti, troppo artisti per i tecnici, né carne nè pesce, insomma. Se lo fate per il prestigio, meno che meno. Non esiste categoria più bistrattata, sfottuta, derisa: dai padroni di casa, dagli imprenditori edili, dai muratori, dagli ingegneri, dai geometri. Un incubo.

Tanto ve lo dico subito, il lavoro (di architetto intendo) non lo trova. A meno che non abbiate la pazienza infinita di vederlo leccare i piedi nello studio di qualche affermato professionista per anni. Per dodici-sedici ore al giorno: a tirare linee, a disegnare sempre e solo scale di sicurezza o pozzetti d’ispezione, e tutto gratis o per un ridicolo rimborso spese. Tutto questo per poter mettere sul curriculum, dopo essere stato spremuto come un limone, di aver lavorato per lo stimato professionista. Che non serve a nulla. Perché se si va a fare un colloquio con un altro stimato, stimatissimo professionista, si ritorna nel girone infernale dei pozzetti di ispezione e dei rimborsi spesa ridicoli. E allora si smette di farsi belli di cotanto curriculum e si cerca di tutto; tutto quello che capita diventa ossigeno: e si passa per studi di ingegneria, con i tuoi cugini del Politecnico che ti guardano ridacchiando sotto i baffi, trattandoti come una burba in una caserma punitiva o, peggio, per sperduti uffici di geometri specializzati in pratiche catastali. Che ti chiedono, come al solito, dato che te lo chiedono da anni: “ma sei un architetto di interni o di esterni?” E tu che proprio non sai rispondere, perché la domanda è assolutamente incomprensibile: dal cucchiaio alla città, ti avevano insegnato in facoltà. L’architetto si occupa di tutto, dal cucchiaio alla città, come si può pensare che uno si fermi agli interni e che un altro si occupi degli esterni? Ma l’architettura non era il gioco sapiente dei volumi sotto la luce del sole? Non era una totalità inscindibile?

Vivo in Italia, nel paese col più alto numero di laureati in architettura d’Europa e col più basso numero di opere edili progettate da architetti, ed ho una vita sola.

Voglio sposarmi, avere dei figli, non posso aspettare per tutta la vita. Il mio diploma di laurea è appeso nel cesso. Eccomi Italia. Fa di me quello che vuoi.

Gregotti aveva ragione: in Italia l’architettura non è una disciplina meritocratica. Fare architettura è innanzi tutto un privilegio di casta. Non dico che gli architetti italiani famosi nel mondo non siano bravi: alcuni di loro sono di levatura internazionale di qualità eccelsa, almeno un paio sfiorano il geniale. Solo che, semplicemente, a loro è stato permesso di dimostrarlo. Ma che ne è di tutti quelli che a parità creativa non riusciranno nemmeno a fare una villetta in campagna? Che né è di quelli che, dopo anni a disbrigare le pratiche accademiche dei loro baroni, esasperati da quindi anni di precariato intellettuale, mollano tutto e vanno a fare i tecnici comunali?

Se insistete e davvero volete iscrivere i vostri virgulti in quelle bolge dantesche che sono le facoltà di architettura italiane, bè, allora fatelo! Ma fatelo davvero. Perché in fondo, se non siete i genitori ricchi consigliati da Gregotti e se nulla programmate di concreto per il futuro dei vostri figli e siete fervidi credenti nella provvidenza divina, di certo state facendo frequentare loro la più bella delle facoltà universitarie, la più stimolante, la più variegata. Perché l’architettura è una disciplina che si pone in un crocevia dove soffia da una parte il vento della cultura umanistica e dall’altra quello della cultura scientifica e dell’innovazione. Perchè un architetto deve sapere di tecnologia, di sociologia, di storia dell’arte, di restauro, di tecnica delle costruzioni, di estetica, di urbanistica, di composizione. Perché è l’ultima disciplina ancora perfettamente rinascimentale, dove tutto rimanda ad un tutto. Di quelli che si laureano pochi faranno la professione, ma tutti sapranno trovarsi un lavoro, qualunque lavoro. Perché la disciplina dell’architettura prevede una flessibilità mentale, una capacità di adattamento alle situazioni, un senso di progetto, che servono a prescindere dal lavoro che stai facendo. […] L’altro grande dono che ti da è lo sguardo. La capacità di interpretare lo spazio, di dialogare con le forme, di comprendere il potenziale iconografico del reale e del virtuale.

Quindi, massì, mandatelo pure vostro figlio a studiare architettura. Fatelo. Impegnatevi a pagare le tasse, il posto letto proibitivo se abitate fuori sede, le copie, le fotocopie, i libri, i programmi cad, le attrezzature, tutto. Fatelo laureare. Poi però mandatelo all’estero. Che qui non c’è speranza.”

mercoledì 17 aprile 2013

Il sindaco di Firenze vuole i minuti contati

L'orologio della torre di Arnolfo di Cambio a Firenze, quella di Palazzo Vecchio per intenderci, ha un orologio con una sola lancetta che segna le ore. Qualcuno ci avrà fatto caso: per sapere che ora è bisogna fare un piccolo sforzo e capire le mezzore ed i quarti d'ora attraverso la posizione della lancetta delle ore sul quadrante. Qualche ironia si può anche fare, ma l'orologio non ha perso i minuti per qualche strano mistero, è così dal Seicento.
Già nel 1353 (il 25 marzo) sulla torre di Palazzo Vecchio era stato installato un orologio meccanico, ad opera di Nicolò di Bernardo. Fu il primo orologio pubblico della città ma necessitava di frequenti correzioni utilizzando una meridiana posta all'esterno della torre, in un punto non visibile. Il meccanismo fu variato nel 1667 da Giorgio Lederle di Augusta ed è quello tutt'ora funzionante. Fu aggiunto un lungo pendolo sfruttando gli studi di Galileo Galilei sulle sue oscillazioni e sull'opportunità che il pendolo offriva per il funzionamento degli orologi.  Fu oggetto di restauro nella campagna 2002-2005 di lavori sull'intera torre campanaria ed è tornato in funzione dal 2008. 
Adesso il sindaco di Firenze, in una dichiarazione del 17 aprile 2013 durante una riunione in Comune, dice:
"io gradirei avere un'ipotesi di un orologio che segna l'ora. L'orologio che fa fare riflessioni filosofiche va bene ai fessi" "vi domando: ma vi costa parecchia fatica metterci un'altra stanghetta?" 
L'assessore alla cultura cerca di fargli capire: "quel meccanismo, che è settecentesco, prevede una sola lancetta ed un contrappeso. Se tu vuoi l'orologio come quello che abbiamo al polso tutti noi, devi cambiare il meccanismo..."
E lui: "e v'offendete parecchio se si trova uno sponsor privato" che cambi il meccanismo?
L'assessore: "Ma perché lo devi cambiare? è così bello quello..! Uno dice: che ore sono? l'una e diciassette; forse no, l'una e venti"
Il sindaco: "io mi fermerei di fronte all'ordinario di Estetica, ancor prima che Assessore alla Cultura" ma "non vi sto chiedendo di mettere l'orologio digitale della Casio. Vi sto chiedendo se si può mettere un orologio bello che funziona". 
Ed a qualcuno che propone di fare un opuscolo su come funziona l'orologio o una lezione sotto la torre, lui ironizza: "te sulla semplificazione amministrativa..eh?! Si fa l'opuscolo..!".

E' come se io proponessi di mettere l'orologio al quarzo ad una meridiana perché quando c'è nuvolo non segna l'ora...
Non è la prima uscita del genere: nel 2011 c'era stata la proposta di costruire la facciata michelangiolesca della Basilica di S.Lorenzo, mai realizzata; nel 2012 l'idea di pavimentare con il cotto Piazza della Signoria.

A colpi di rottamazione, si vuole rottamare pure un bene culturale per mere (e poco sensate) esigenze funzionali: i turisti non lo capiscono e pensano non funzioni, pare abbia affermato. I turisti leggeranno l'ora sullo smartphone, ho pensato io. E poi si vorrebbe cancellare una peculiarità per sostituirla con una banalità? Perché invece non valorizzare la singolarità di un orologio con una lancetta sola? Quanti di quei turisti proprio per quel motivo lo osservano e lo ammirano?

Meno male che il sindaco, durante le primarie del centrosinistra, puntava alla cultura ed alla vocazione italiana alla qualità. Ma è credibile da uno che vuole modificare un orologio seicentesco simbolo di Firenze solo perché non ha la lancetta dei minuti?  Lascio a voi la sentenza. 

L'orologio di Palazzo Vecchio (foto tratta da larivistaculturale.com)

martedì 9 aprile 2013

Un pezzo per volta

Il nostro patrimonio crolla un pezzo per volta; l'assenza della manutenzione preventiva e programmata come prassi è tra le principali cause. La mancanza, ovvero, di una serie di interventi "leggeri" sui beni architettonici (e su quelli artistici) che ci permettano allontanare temporalmente interventi più massicci, quali il restauro, il ripristino o la ricostruzione; interventi, quest'ultimi, che incidono maggiormente sulle tasche della committenza e che, soprattutto, si rendono necessari una volta raggiunto un avanzato degrado dell'opera, ovvero quando qualcosa che le apparteneva l'abbiamo sicuramente già perso.

"Il chiostro sta crollando un pezzo per volta e fra tre o quattro anni costituirà soltanto un tema di ricerca per gli studiosi di storia ecclesiastica". Così diceva Armando Siboni sul quotidiano Libertà di Piacenza nel 1979, parlando dei Chiostri della Chiesa di Santa Chiara ed è di quelli che qui voglio occuparmi. Nel 1985 Ersilio Fausto Fiorentini affermava: "La previsione (del Siboni, ndr), purtroppo, si sta avverando com'era fatale che fosse visto l'impossibilità dei Saveriani (l'istituto religioso che oggi regge la chiesa di Santa Chiara, ndr) d'intervenire per mancanza di mezzi. Quasi del tutto a terra è il lato nord verso la chiesa ma anche sui fronti ovest e sud la situazione è a dir poco grave: è stato sistemato, invece, il lato est dove ha sede il Pio Ritiro tuttora funzionante".
La prima pietra dell'attuale chiesa fu posta nel 1605, per cui si può pensare che i chiostri risalgano a quel periodo, anche se non è difficile supporre che possano riprendere un impianto precedente, risalente al XIII secolo, periodo in cui nell'area si costruì il convento dei Frati Minori.

Una vecchia foto del chiostro pubblicata sul volume Le chiese di Piacenza di E.F. Fiorentini, Edizione TEP Piacenza
Allo stato attuale la situazione è ovviamente molto peggiore. Poco resta di quello descritto dalla foto allegata. Le immagini da satellite permettono di guardare alla situazione attuale:

immagini tratte da mappe.Istella.it

Nelle seguenti immagini aeree si può osservare come il degrado sia avanzato nel tempo. Nel 1955 le strutture di copertura erano ancora in sito. Si può osservare la situazione nel 1988, descritta poco prima dal Fiorentini, fino a giungere a quella attuale.


Una sovrapposizione delle immagini permette una più immediata comprensione dell'avanzamento del degrado nel tempo: 

Immagine gif animata, cliccare se non è visibile il movimento.
L'area e lo stato in cui essa versa credo siano sconosciuti ai più, nonostante questa si trovi nel pieno centro della città di Piacenza. Credo sia impossibile accorgersi, praticamente solo passandoci vicino, del complesso in totale abbandono. Eppure l'area, in qualche misura, potrebbe essere recuperata. Prossimamente cercherò un modo possibile per osservare da vicino quel che resta del complesso, con la speranza di ottenere qualche fotografia dello stato dei luoghi. Intanto tutto questo serva da spunto per riflettere: come stiamo conservando il nostro patrimonio?
Questo è quello che può produrre la mancanza di manutenzione. Siamo consapevoli delle perdite che subiamo?
Ed intanto all'estero, con i nostri beni mobili in giacenza nei magazzini o negli angoli dei musei, organizzano mostre di grande successo...

sabato 26 gennaio 2013

Sibari andava salvata prima

Torno ad occuparmi del caso di Sibari, tra l'altro poco o per nulla discusso sui media nazionali. Con un taglio ed un tono diverso dal precedente post.
18 gennaio 2013: sul sito della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria si legge un lapidario avviso: 

Nelle prime ore di stamani il fiume Crati ha rotto l'argine all'altezza del Parco del Cavallo a Sibari ed ha sommerso sotto metri d'acqua l'area archeologica.

L'emergenza è in corso e ancora non si può prevederne la fine né valutarne le conseguenze sul patrimonio archeologico. 

Poi nient'altro. Ma forse, visto che il sito archeologico di Sibari è il più importante della Calabria e direi trai maggiormente rilevanti in Italia, non era necessario prevenire? Il sito è adiacente al fiume, come è percepibile dall'immagine sottostante:


La storia dello scaricabarile burocratico e del mancato intervento (in particolare della sottovalutazione della gravità della situazione) di chi di competenza potete leggerla qui. Il succo è che, dopo la richiesta d'intervento del sindaco di Cassano del 10 dicembre scorso, per la messa in sicurezza degli argini del Crati e dell'Eiano, non si è mosso nulla. 
Pare inoltre che ad agevolare la fuoriuscita dell'acqua del Crati sia stata la presenza di agrumeti in terreni che non dovrebbero essere coltivabili, in quanto compresi nella zona demaniale o in zona di rispetto del parco archeologico. In buona sostanza, potrebbero essere abusivi.
Oggi si chiede l'intervento dello Stato dopo la catastrofe. Ma cosa si è fatto prima? Si è tutelata la ricchezza costituita dal parco? Si sono finanziati progetti di scavo per un area che potrebbe ancora svelare molto (ci sono numerose zone potenzialmente interessanti e non scavate) e trasformare Sibari in una ricchezza per l'intero Paese? Si sono sviluppate politiche che attraggano turismo verso l'area, magari per portare ricchezza alla regione? Mi chiedo ancora: i soldi per la messa in sicurezza del territorio dove sono stati investiti? 
Due cose sono rimaste alla Calabria su cui puntare per una crescita economica e socioculturale: il mare e le tracce della Magna Grecia. Entrambi sono sempre stati maltrattati sia dai cittadini che dalle istituzioni. Non sono mai state adottate politiche serie per la valorizzazione e la conservazione di queste risorse. Adesso si piangono i soldi.
Non ci si può ricordare dei miti del passato classico solo quando conviene, forse per non guardare in faccia la realtà e nascondere la testa sotto la sabbia; << se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce >> diceva Pasolini ai Calabresi. 
E' giusto salvare Sibari dal fango. Dobbiamo farlo per la nostra dignità nazionale, per mostrare un segno, seppur estremo, di civiltà. Per la nostra storia che va curata e tramandata. Io l'appello per il salvataggio di Sibari lo firmo ed invito tutti a fare altrettanto. Ma non lo faccio per amore di quelle istituzioni che riceveranno il finanziamento, ma per amore della cultura, per sottrarre le tracce importanti della Magna Grecia dalla melma dell'ultima inadempienza di chi, quando sente Magna, forse pensa subito al denaro. 


giovedì 24 gennaio 2013

Il fango sull'antica Sibari e il manifesto dei geologi

Dopo le Primarie del FAI ed il manifesto "Ripartire dalla Cultura", il 22 gennaio viene pubblicato il "Manifesto dei geologi" da recepire nella campagna elettorale dei Partiti coinvolti nelle elezioni 2013. Secondo il Consiglio Nazionale dei Geologi, la crisi economica non può divenire l'alibi per rimandare la questione della buona gestione del territorio, troppo spesso carente in ogni parte d'Italia.
Il 17 gennaio il fiume Crati, tra i comuni di Cassano Ionio e Corigliano Calabro, esonda ricoprendo di acqua e fango il Parco Archeologico di Sibari, che raccoglie i resti della Greca Sybaris (709 a.C.), poi Thurii e la successiva città romana di Copiae.
I due eventi, per puro caso, si richiamano a vicenda. 

Gli Scavi di Sibari allagati - foto: Il quotidiano della Calabria

Il Manifesto dei geologi denuncia come il 10% del territorio italiano - in termini di superficie -  sia ad elevata criticità idrogeologica e che tale criticità interessi l'89% dei comuni. Si chiede la concreta attuazione di un ampio ed organico programma di prevenzione volto alla messa in sicurezza del nostro territorio nei confronti dei fenomeni naturali calamitosi.
Il parco archeologico di Sibari è il sito di una delle più importanti città della Magna Grecia; costituisce oggi uno dei siti archeologici più importanti in Italia. E' stato un campo scuola per generazioni di archeologi. Oggi è ricoperto da fango.

L'esondazione del Crati si ricollega a quanto denunciato dal Consiglio Nazionale dei Geologi, ma non invade una qualsiasi zona agricola, invade invece uno dei siti archeologici più importanti del nostro paese. Come è possibile lasciare un patrimonio come il nostro in condizioni di pericolo come queste? Non basta il degrado degli agenti atmosferici "fisiologico"; a questo si aggiunge il danno legato alla mancata prevenzione di chi dovrebbe averne competenza. 
Sull'argomento interviene Salvatore Settis su il Quotidiano della Calabria: <<Il disastro appena avvenuto riguarda l’ambiente, riguarda il paesaggio, o riguarda l’archeologia? O è nostra colpa aver considerato questi ambiti come separati, e non aver saputo congiungerli in un solo grande progetto, culturale, tecnico e politico, da gestire non all’insegna delle combriccole e delle amicizie, ma sotto la bandiera del bene comune? Non è nostra colpa aver rinunziato a proteggere l’ambiente, a mettere in sicurezza il territorio, a tutelare davvero i monumenti, tagliando i fondi come tutti i governi (compreso l’attuale) hanno fatto da anni e anni?
...omissis...
Se non sapremo adottare una cultura della prevenzione, vantarci della nostra storia (anche dei «nomi voluttuosi e atletici di Sibari e di Crotone») sarà stupido e vano. Peggio ancora: sarà ridicolo. Forse, anzi, lo è già.>>


Il Parco Archeologico di Sibari - foto strettoweb

Un gruppo di intellettuali ha indirizzato un appello al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, al Ministero dei Beni Culturali ed agli Enti competenti, per salvare il patrimonio sommerso dal fango, una volta rimossa l'acqua con le idrovore. Possono aderire tutti i cittadini inviando una e-mail all'indirizzo: salviamosibari@finedit.com indicando nome, cognome, professione e città di domicilio.

Salviamolo, il nostro Patrimonio!

giovedì 17 gennaio 2013

Ripartire dalla Cultura: una professione da salvare (o, almeno, rispettare)

In riferimento al post di "Ripartire dalla Cultura" propongo una sorta di dissertazione su due punti che ritengo fondamentali tra quelli dell'appello presentato.
Senza doverli rileggere, li ho trascritti qui, in corsivo, per usarli come una sorta di spunto di riflessione.

L’Italia ha bisogno di cittadini più istruiti e competenti.

Con l’incipit mi sento immediatamente discorde.
L’Italia non ha bisogno di cittadini più istruiti e competenti, ha bisogno di imparare a valorizzare quelli che già esistono, e che negli anni ha contribuito a formare.

Questo obiettivo può essere raggiunto soltanto attribuendo allo studio, all’istruzione e alla cultura un rinnovato prestigio sociale, derivante dall’effettiva corrispondenza fra livello di istruzione raggiunto e riconoscimento di status sociale e professionale

Lo Stato stesso ha spinto le nuove leve di lavoratori a specializzarsi, specializzarsi, specializzarsi il più possibile, formando appositi corsi di studi (anatomia della farfalla notturna, logistica del pacchetto natalizio, corsi per future veline… ah, pardon, l’ultimo era reale) con relativi master, master dei master e via dicendo, dimenticandosi poi che queste nuove “figure professionali non professionalizzate” avrebbero dovuto trovare una collocazione nel mondo del lavoro, e quindi anche nella società.
L’istruzione, per chi vuole perseguirla, ha sempre un prestigio, è un valore aggiunto, soprattutto personale, oltre che sociale.

La tensione verso un alto livello culturale deve diventare l’obiettivo in cui ogni italiano si riconosce, perché a elevate competenze corrisponde una maggiore probabilità di realizzazione personale.

Tanti italiani si riconoscono in questo obiettivo, forse troppi.
Tra questi ci sono coloro che puntano ad un pezzo di carta per avere un comodo posto intoccabile dietro a una scrivania, così come coloro che vogliono fare il lavoro che sognavano fin da bambini e che affidano alle sudate carte la loro possibilità di riuscita. In entrambi i casi ci si affida, per il proprio traguardo, ad un dato apparentemente certo: ad elevate competenze non corrisponde la maggiore probabilità di realizzazione personale
Anzi: le elevate competenze sono quelle che ti chiudono le porte nel mondo del lavoro, perché fanno aumentare il costo del tuo compenso.

Serve un’inversione di tendenza, perché il nostro paese spende per l’istruzione pubblica e privata una percentuale del PIL sensibilmente inferiore rispetto agli altri paesi OCSE. La percentuale di diplomati e laureati italiani è inferiore a quella di tutti i paesi europei e le competenze linguistiche, matematiche e di lettura degli studenti italiani, rilevate periodicamente attraverso indagini internazionali, non sono all’altezza di quelle dei coetanei stranieri. Il valore della formazione permanente, utile a rinnovare le competenze lungo tutto l’arco dell’esistenza, non è oggetto di politiche pubbliche. E’ indispensabile che l’Italia impari a riconoscere e premiare il merito, coniugandolo all’effettiva equità nelle condizioni di accesso all’istruzione e alla cultura.

Non ho capacità né conoscenze per ribattere o confermare quanto illustrato. Non mi soffermo quindi sui dati forniti, ma solo sulle ultime righe, che si riassumono in una sola parola, che suona forte e chiara nei desideri di molti cittadini, giovani e meno giovani: MERITOCRAZIA. Come garantirla?
Per trovare risposta ci troviamo invischiati in un meccanismo circolare: il favoritismo degli amici degli amici, la strada mai ostacolata delle scorciatoie, la furbizia considerata dote più importante dell’intelligenza, andrebbero forse a sparire con l’investimento in Cultura.
Quella che serve per aprire la mente, non solo per avere un attestato.
Meritocrazia per avere Cultura e Cultura per avere la meritocrazia.
Poche ore di “educazione civica” alle scuole medie evidentemente non sono sufficienti al fabbisogno nazionale.
L’attestato di etica, purtroppo, nessuno lo rilascia, eppure dovrebbe essere importante quanto una fedina penale pulita.


La disoccupazione giovanile colpisce con particolare virulenza coloro che hanno scelto il settore culturale come campo d’attività professionale. La riduzione delle risorse pubbliche e private e il blocco delle assunzioni hanno drasticamente ridotto la possibilità di uno sbocco lavorativo in questo ambito, benché ancora in anni recenti si siano moltiplicati in modo incontrollato corsi di laurea, scuole di specializzazione e dottorati; il risultato è che si continuano a spendere cifre esorbitanti per formare giovani professionisti dei beni culturali, salvo condannarli a un eterno stato di precarietà e di continuo turn-over, con inevitabile degrado della qualità dei servizi resi ai cittadini. Occorre che al rinnovato impegno dei professionisti della cultura corrisponda un impegno della politica per la difesa e la valorizzazione del capitale umano, per il ricambio generazionale e il rinnovamento dei ruoli direttivi, scientifici e tecnici. Senza personale altamente qualificato e adeguatamente riconosciuto le istituzioni e le aziende culturali muoiono.

Sono concorde su ogni singola riga.
Chi legifera non sa esattamente con quale materia interagisce, motivo principale per il quale la grande offerta di studi più o meno specialistici non trova poi l’assorbimento nel mondo del lavoro di coloro che l’accolgono.
In particolare nel settore dei Beni Culturali.
Spesso chi entra in questo mondo lo fa per amore della bellezza, dell’estro creativo, dello studio del passato. Spera di andare a lavorare presso musei (in effetti chiedono laureati in Storia dell’Arte per lavorare come commessi nei Book Shop), di maneggiare antichi tomi nelle biblioteche, di occupare una cattedra dalla quale insegnare ad un’altra generazione il valore di un patrimonio storico.
Nel campo del restauro lo si fa quasi per Missione, oltre che per passione.
Non conosco nessuno che sia stato chiamato a lavorare o a vedere un lavoro che abbia risposto “no domani non posso”, o che non abbia piegato la testa di fronte ad un contratto poco conveniente o ad un inquadramento sbagliato, quando la ditta dice “perfavore, lo sai che non ci sono soldi”(in caso di sfruttamento, comunque diffuso, il discorso è differente). C'è chi accetta di aprire la partita iva "fasulla", perchè qualcuno lo fa lavorare e non lo può assumere; quella "vera" spesso non serve, perchè arcani motivi burocratici rendono impossibile a taluni lavorare su beni pubblici con un'azienda propria, nonostante accertate competenze.
Conosco pochi che non si siano pagati di tasca loro corsi di aggiornamento che l’azienda non può permettersi di pagare, anche se il capitale professionale va ad aumentarne il valore.
Sorvoliamo sul fatto che la maggior parte sono donne, perché solo per questo ci vorrebbe un capitolo a parte.
Dovreste vederle, le anti veline, arrampicarsi sui ponteggi e portare pesi che un uomo impiegato di banca non riuscirebbe a sostenere, se non gonfiandosi in un’asettica palestra.
Il co.co.pro. e il contratto a tempo determinato sono usuali, in fondo se l’afflusso di lavoro non è costante cosa si può pretendere?
La difesa di questo capitale umano non solo non esiste, ma arriva a prendere le sembianze di un’offesa.
Non si può qui entrare nel merito dell’umiliazione che rappresenta una legge sospesa nel vuoto per almeno un decennio, lo spauracchio di tutti gli operatori e professionisti del settore (l’articolo 182 del Codice dei Beni culturali). Si sappia solo che ha bloccato la crescita professionale di molti neo-formati, che ha favorito non professionisti, che ha equiparato persone appena uscite dall’università, senza nemmeno stage alle spalle, a tecnici che da anni maneggiavano bisturi, pennelli, libri di chimica ed iconografia.

Ormai è una categoria che ride quando, rispondendo alla domanda “che lavoro fai”, di rimando si sente dire “anche un mio zio ridipingeva le seggiole in cantina, in fondo abbiamo tutti un qualcuno che ristruttura in famiglia, e poi toglie le tarme dal legno”, oppure “ho visto che restauravano quella cupola di quell’artista famoso… avete fatto bene a rimetterci i colori, ora sembra nuovo, che pazienza che avete!!”).
Ride meno quando la categoria dei restauratori viene assimilata o confusa a quella degli edili, soprattutto a livello legislativo, nonostante l'immensa differenza di competenze.
Al contrario di come l’opinione pubblica considera i restauratori (alchimisti o falegnami, imbianchini o amanuensi rasentanti l’autismo, a seconda), questi sono figure formate a livello umanistico, scientifico e manuale: operai con un quid in più (anche due o tre).


In realtà è l’educazione al gusto e al bello che manca.
Se esistesse i restauratori sarebbero considerati alla stregua degli idraulici, perché come loro sono indispensabili. Indispensabili al mantenimento della memoria storica del Paese.
Per ogni David di Donatello restaurato, esistono migliaia di opere che rischiano di essere perdute.
Un esempio pratico: per restaurare all’interno del Bargello la celeberrima scultura, sono stati stanziati 200mila euro.
E’ occorso un anno per terminare l’operazione. Operazione di sola pulitura.
Nella realtà quello che accade è molto diverso.
Con la stessa cifra, ammesso e non concesso che le gare d’appalto vengano vinte non facendo massimo ribasso (che bello sarebbe) si sarebbero potute restaurare (facendo una media sommaria)  circa una ventina di opere tra altari, tele grandi formato, sculture ridipinte. 
E guai a impiegare un anno per un lavoro. Non si è mai visto.
I soldi sono pochi. Un tecnico con esperienza si può trovare rimpiazzato da uno spaesato stagista, che non risucchia importante liquidità all’azienda. Ma la qualità ?
Alcune soprintendenze effettuano il sopralluogo di controllo con lo storico dell’arte che si accompagna al restauratore della soprintendenza stessa.
Giustamente pretendono un lavoro fatto con tutti i crismi, a prescindere dallo stanziamento (e son dolori!).
Altre no, l’importante è che costi poco: arrivano a permettere che il restauro, la manutenzione, possano essere fatti da artigiani anche senza i titoli necessari, o gli anni di esperienza. Contro ogni legge e buon senso esistenti.
Le soprintendenze possono valere meno di un committente.
Anche in questo l’Italia è spezzata. Le regole non sono uguali per tutto il territorio. 
Eppure stiamo parlando di dipendenti pubblici che lavorano per un organo ministeriale.
Peccato che siano circa 20 anni che concorsi non ne vengono fatti, che il personale non cambia ed è relativamente poco, portando così poca innovazione e poca presenza sul territorio.
Eppure dovrebbero essere come “angeli custodi”, e saper valutare il valore di un restauratore, lavorare a braccetto con lui.
Andare all’estero? No, grazie.
Eppure, oltre il confine, i restauratori italiani sono considerati un'eccellenza. 
Un altro mestiere forse avrebbe senso altrove. 
Ma non questo, nel Paese col più alto numero di opere d’arte al mondo, nel Paese in cui il restauro affonda le radici. Un controsenso e un'offesa.

Salviamolo, il lavoro di chi vuole salvare la nostra Bellezza!




La bella Italia che non seduce gli italiani

Massimo Gramellini, tramite la sua rubrica Buongiorno su LaStampa.it, tratta oggi un tema molto interessante e che diviene subito caro a questo blog: perché le glorie del nostro passato ispirano solo gli stranieri?
Punto di partenza è un nuovo libro che Dan Brown ha annunciato: Inferno, ambientato nella città di Dante, "un viaggio nel profondo mistero di un paesaggio ricco di codici, simboli e passaggi segreti". 
I tanti ricorderanno, dopo il successo da 80 milioni di lettori de Il codice da Vinci (secondo molti un libro modesto basato su tesi  grossolane e sprovvedute), il romanzo Angeli e Demoni anch'esso ambientato in Italia. Esempi di come la storia del nostro paese, del Rinascimento e della Roma Antica, attragga spesso gli interessi di scrittori e studiosi stranieri e ben poco quelli dei nostri. 

Gramellini si chiede: L’antica Roma e il Rinascimento, incanti da esplorare per chi vive al di là dell’Oceano, per noi che ci abitiamo in mezzo si riducono a scenari scontati: le piazze del Bernini sono garage e il Colosseo uno spartitraffico. O è la scuola che, facendone oggetto di studio anziché di svago, ci ha reso noioso ciò che dovrebbe essere glorioso. Ma forse la presbiopia e la scuola c’entrano relativamente: siamo noi che, per una sorta di imbarazzo difficile da spiegare, ci ostiniamo a fuggire dai cliché - sole, ruderi, arte e buona tavola – a cui il mondo vuole inchiodarci per poterci amare e invidiare. 

L’Italia capitale universale della bellezza e del piacere è l’unico Paese che può scampare al destino periferico che attende, dopo duemila anni di protagonismo, la stanca Europa. Ma per farlo dovrebbe finalmente accettare di essere la memoria di se stessa. Serve una riconversione psicologica, premessa di quella industriale. Serve un sogno antico e grande, mentre qui si continua a parlare soltanto di spread.

Potete leggere tutto l'intervento di Massimo Gramellini qui.

Con la cultura si mangia. Salviamolo, un patrimonio così invidiato!

Un appello al prossimo governo: ripartire dalla Cultura

MAB Musei Archivi BibliotecheAIB – Associazione Italiana BibliotecheANAI – Associazione Nazionale Archivistica ItalianaICOM Italia- International Council of MuseumsAssociazione Ranuccio Bianchi BandinelliFedercultureItalia NostraLegambienteComitato per la bellezza promuovono un appello,  intitolato Ripartire dalla Cultura, rivolto alle forze politiche impegnate nell'attuale campagna elettorale affinché trasformino i temi e gli obiettivi proposti in punti d'azione del prossimo Governo. Con lo stesso intento l'appello può essere sostenuto da qualsiasi cittadino, aderendo con una firma di sottoscrizione. Le priorità del manifesto sono le seguenti:

1) Puntare sulla centralità delle competenze

2) Promuovere e riconoscere il lavoro giovanile nella cultura
3) Investire sugli istituti culturali, sulla creatività e sull’innovazione
4) Modernizzare la gestione dei beni culturali
5) Avviare politiche fiscali a sostegno dell’attività culturale

Coloro che vorranno sottoscrivere l'appello, potranno farlo qui.



Mi limito qui a presentare l'iniziativa, in ogni caso lodevole. Rimando ad un prossimo post l'analisi dettagliata dei temi, esponendo eventuali critiche o modesti suggerimenti. Ad una prima lettura credo che l'appello tocchi molti punti critici della martoriata situazione della Cultura in Italia; mi pare essere maggiormente "pensato", mirato ed approfondito di quello proposto in forma di votazione on line dal FAI, con analogo intento di proposta al nuovo futuro governo e trattato su questo blog in un precedente post.



Intanto leggetelo e ed eventualmente sottoscrivetelo. Con la cultura si mangia.

Saliviamolo, il patrimonio culturale italiano!


venerdì 11 gennaio 2013

In Calabria emergenza rifiuti da mesi ed i media non ne parlano

La Calabria è commissariata per l'emergenza rifiuti da 15 anni. Si, quindici anni. Il commissariamento è per definizione temporaneo. Commissario, riporto da dizionario etimologico: quegli, alla cui fede è commesso il carico d'alcuna pubblica cura, ma il più delle volte temporaneamente e per qualche straordinaria contingenza.
Ma passiamo oltre. Le strade calabresi sono colme di rifiuti da mesi, ma non se ne parla a livello nazionale. D'altronde non vi è necessità, visto che alcun candidato alle elezioni politiche ha deciso di mettere al centro della campagna elettorale la "liberazione dai rifiuti" come accadde nel caso di Napoli nel 2008. O la Calabria ha meno importanza della Campania, o molti Calabresi sono abbastanza pecoroni da garantire in ogni caso un sostegno a quella formazione politica (Napoli era tradizionalmente di sinistra ed andava "conquistata"); oppure c'è menefreghismo e basta. 
In ognuno di questi casi i cittadini calabresi vivono una situazione devastante dal punto di vista dell'igiene e del decoro e nessuno ne parla. Le cause del problema sono prevalentemente legate al blocco ed al sovraccarico/malfunzionamento delle discariche calabresi.
I rifiuti ristagnano sui bordi delle strade, producendo del percolato sull'asfalto (e meno male che non siamo in agosto), per non parlare di chi - in preda alla disperazione - dà loro fuoco non rendendosi conto della quantità di diossine che tale combustione può produrre. 
Non ho creduto ai miei occhi nel momento in cui ho letto l'invito del Commissario ai cittadini in cui quest'ultimi venivano invitati a non abbandonare i rifiuti in strada ma trattenerli nel proprio domicilio. Se le Amministrazioni non sono in grado di risolvere il problema, le case dei cittadini devono diventare discariche?
Notizia del giorno è che nel Consiglio regionale qualcosa si muove verso la chiusura della "parentesi" commissariale del settore rifiuti e verso un nuovo piano per portare la situazione verso la normalità. Staremo a vedere.
Sarà sicuramente necessario, in ogni caso, iniziare ad intensificare la raccolta differenziata, le cui percentuali sono in Calabria tra le più basse in Italia. Colpa sia della mancanza di una politica che guardi all'ambiente, sia dei cittadini che non mal volentieri digeriscono la raccolta differenziata. Per molti il ciclo dei rifiuti termina nel bidone; quello che succede dopo non importa, basta che siano usciti di casa. Il tasso di raccolta differenziata per la calabria nel 2010 è stata del 12,4%, penultima in Italia, solo precedente alla maglia nera della Sicilia che si attesta al 10%. Solo per paragone, la regione che si posiziona al primo posto è il Veneto con un tasso che si avvicina al 60% (Fonte ISPRA 2012).
Nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Salviamolo, l'ambiente!



video dal canale youtube di Jurim89 

martedì 8 gennaio 2013

Una nuova centrale idroelettrica in Val Trebbia?

La Val Trebbia. Una valle a cavallo tra Liguria ed Emilia, segnata dal percorso del fiume Trebbia, che nasce ai piedi del monte Prelà (GE). Si sviluppa e sfocia nel Po all'interno del territorio della provincia di Piacenza. Fu battezzata da Ernest Hemingway, nel 1945, la valle più bella del mondo
Piacenza ha una provincia meravigliosamente bella, che va custodita oltre che vissuta. La val Trebbia è tra le più suggestive e cariche di storia. Più volte è stata oggetto di tentativi di privatizzare parte del fiume che l'attraversa per produrre energia elettrica. Allo stato attuale esistono tre impianti attivi nella provincia di Piacenza. A questi si aggiungono due impianti incompiuti, uno dei quali è quello di San Salvatore (Bobbio). Qui negli anni '20 del Novecento furono eseguite le fondazioni di una diga, le gallerie di scarico e quella di alimentazione delle due centrali che dovevano operare. 
Oggi gli stessi ruderi della diga sono meta dei bagnanti, i quali frequentano nei mesi estivi quelle sponde in prossimità di San Salvatore, uno dei tratti più caratteristici e più frequentati durante l'estate, anche per la pulizia delle acque.
I meandri di San Salvatore, nei pressi dell'abitato di Brugnello, tra Bobbio e Marsaglia, costituiscono un complesso geologico con caratteristiche di singolarità e di spettacolarità paesaggistiche unici in Emilia Romagna. Qui troverete un maggiore approfondimento sulle caratteristiche ambientali e geologiche del luogo. 

Il suggestivo meandro di S.Salvatore, Bobbio (PC). Immagine tratta da http://www.piacenzamusei.it
L'area di San Salvatore è tra le più vincolate d'Italia dal punto di vista ambientale e paesaggistico. Oggi si vorrebbe costruire una centrale idroelettrica sui ruderi della diga abbandonata negli anni Venti. Il progetto prevede l'innalzamento dello sbarramento esistente di 3 metri, trasformando in lago artificiale l'ultimo meandro di S.Salvatore. Inoltre accanto alla diga è prevista la costruzione di un edificio di 600 mq, previo sbancamento della collina. L'attuale mulattiera trasformata in strada camionabile. Questo è quel che si prospetta secondo il progetto dell' Ing.Friburgo di Genova. Pare che l'Amministrazione Provinciale, ente gestore dell'area, abbia intenzione di autorizzare la realizzazione dell'impianto. 
Qui trovate un comunicato del comitato contro la realizzazione. E' necessario far notare all'Amministrazione il totale senso di irresponsabilità che avrebbe il gesto di autorizzazione di una tale opera. I cittadini di Piacenza possono partecipare ad una raccolta firme, contro la realizzazione del progetto, presso:

Roberto Pesca v. Boselli 54 Piacenza
FIPSAS via Calciati 14 Piacenza
Libreria Fahreneit, Via Legnano Piacenza
Libreria Romagnosi, Via Romagnosi, Piacenza
Il Pane Quotidiano, Via Calzolai 25, Piacenza
La Pecora Nera, Via Calzolai 63/65, Piacenza
Punto Macrobiotico, Via Alberoni, Piacenza
L'Albero del Pane, Via X Giugno, Piacenza
Mondo pesca v. Padre Davide da Bergamo 1/a 29121 loc.S.Antonio Pc
Sede del Comune di Bobbio 
Cinema Le Grazie di Bobbio

Potete seguire gli aggiornamenti sulla vicenda sulla pagina facebook di Salviamo la Val Trebbia

Salviamolo, il patrimonio ambientale e paesaggistico dell' Emilia!





lunedì 7 gennaio 2013

Le primarie della Cultura del FAI

Scegliere 3 temi trai 15 proposti che diventino tra quelli prioritari dell'agenda del nuovo governo del Paese. Questo l'intento del FAI, Fondo Ambiente Italiano, nel proporre un sondaggio on line, simpaticamente presentato riprendendo il tema delle Primarie del Centrosinistra per il candidato premier. Si tratta di possibili soluzioni concrete nell'ambito della cultura, del paesaggio e dell'ambiente. Si potrà votare dal 7 al 28 gennaio 2013 sul sito del FAI Primarie della Cultura o direttamente qui. Inoltre è possibile votare visitando la pagina Facebook del FAI. Sarà possibile proporre, via Facebook o Twitter, commenti e suggerimenti sui temi proposti.
Al termine della consultazione i risultati saranno presentati ai candidati alle elezioni politiche, che potranno decidere se prendere una decisione in merito. La deputata PD Manuela Ghizzoni, responsabile della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione alla Camera dei Deputati, ha affermato la volontà di recepire anche i risultati della consultazione on line delle Primarie della Cultura nell'agenda del Partito. 
Con la cultura si mangia. Salviamolo, questo Paese!




sabato 5 gennaio 2013

Prodotti in estinzione: la burtlèina

Spesso si assiste alla scomparsa di piatti che hanno fatto la storia del nostro paese, quelli spesso poveri e tradizionali. Uno di questi è la burtleina (bortellina). Si tratta di una sorta di frittella, diffusa nella parte occidentale della provincia di Piacenza, fritta nell'olio o nello strutto. E' l'ottimo accompagnamento dei salumi tipici locali, quali la coppa, il salame o il lardo piacentino. Oggi è divenuta una rarità in quanto soppiantata nelle trattorie e nei ristoranti dallo gnocco fritto, molto più richiesto dai turisti. E come tutti i prodotti trattati come oggetti di marketing e non come patrimonio, seguendo la domanda turistica, se n'è decretata la morte. Per fortuna si riscopre in trattorie particolarmente "colte" (quelle cioè che hanno deciso di recuperarla o che per tradizione l'hanno conservata) o durante le sagre paesane. Una di queste è la Festa della Bortellina di Casaliggio (PC), che si tiene in genere a settembre. 
Salviamolo, il patrimonio enogastronomico!

Le volontarie alla Festa della Bortellina di Casaliggio (PC) edizione 2012. ©
(immagine coperta da copyright, vietato il salvataggio senza esplicito consenso)

venerdì 4 gennaio 2013

Oro verde d'Italia

Scegliere l'olio d'oliva non è operazione semplice. Il tipo di olio, la provenienza delle olive, il tipo di spremitura, la località di produzione, sono sempre fattori da tener presente. Prima cosa da fare: ruotare la bottiglia e leggere l'etichetta. Una bottiglia di olio di oliva extravergine ha un prezzo che parte dai 6 euro. Viceversa, non state comprando un olio di oliva italiano o, in alcuni altri casi, non state comprando un olio di oliva. Il consiglio è: scegliere un olio extravergine sulla cui etichetta viene specificato che le olive provengono dall'Italia; in caso contrario arriveranno dalla Spagna, dalla Grecia (olive comunitarie) o dal Nordafrica (olive extracomunitarie). Inoltre è bene che sia specificata la spremitura delle olive a freddo. Una garanzia di qualità è data dai marchi D.O.P., denominazione di origine protetta; è garantito che la coltivazione, la raccolta e la spremitura avvengano secondo un preciso disciplinare.
L'Italia è ricca di olii d'eccellenza, spesso protetti da marchio D.O.P. Senza dubbio ricco di olio è il sud del Paese, ma spesso (e soprattutto nella grande distribuzione) si trovano gli eccellenti olii pugliesi, quelli siciliani, ma non quelli calabresi. Eppure l'olio in Calabria è largamente diffuso, l'ulivo è protagonista del paesaggio sin dai tempi della Magna Graecia, ma la diffusione sul territorio nazionale dell'olio calabrese stenta. Questo potrebbe essere dovuto a scarsa iniziativa imprenditoriale dei produttori calabresi rispetto ai colleghi toscani? Evidentemente le politiche della regione non puntano alla diffusione della qualità e ciò costituisce una grossa falla nella conoscenza dei propri prodotti "patrimonio" da parte degli Italiani.
Qui si propone dunque una delle tante eccellenze italiane, il D.O.P Lametia, poco conosciuto anche dagli stessi cittadini calabresi. I quali spesso trovano nei supermercati olii esclusivamente commerciali da distribuzione a larga scala nazionale, ma non gli olii di aziende locali (a km zero), com'è invece cosa possibile in analoghi supermercati del centro o del nord Italia.
L'olio DOP Lametia è ottenuto da olive della varietà Carolea coltivate esclusivamente del territorio della Piana di Lametia, provincia di Catanzaro. Ha odore di fruttato e sapore delicato. Acidità 0,5g/100g. 
La soluzione migliore, per chi può farlo, è andare direttamente dal produttore per l'acquisto. Qui sarà possibile vedere l'azienda, informarsi sui metodi di produzione e assaggiare il prodotto. E' il turismo enogastronomico, questo. Ed è il modo di tutelare le piccole produzioni, che spesso sono schiacciate dalle grosse aziende che popolano i nostri supermercati spesso a discapito della qualità. Nell'attesa che gli stessi piccoli produttori calabresi si decidano ad imporsi maggiormente nel mercato olivicolo nazionale.
Salviamolo, l'oro verde italiano!

CONSORZIO DI TUTELA LAMETIA D.O.P. C/DA FRASSO, ZONA INDUSTRIALE S. PIETRO LAMETINO 
88046 LAMEZIA TERME CZ 
Tel. (0039) 096878006 
Fax (0039) 0968209051