giovedì 17 gennaio 2013

Ripartire dalla Cultura: una professione da salvare (o, almeno, rispettare)

In riferimento al post di "Ripartire dalla Cultura" propongo una sorta di dissertazione su due punti che ritengo fondamentali tra quelli dell'appello presentato.
Senza doverli rileggere, li ho trascritti qui, in corsivo, per usarli come una sorta di spunto di riflessione.

L’Italia ha bisogno di cittadini più istruiti e competenti.

Con l’incipit mi sento immediatamente discorde.
L’Italia non ha bisogno di cittadini più istruiti e competenti, ha bisogno di imparare a valorizzare quelli che già esistono, e che negli anni ha contribuito a formare.

Questo obiettivo può essere raggiunto soltanto attribuendo allo studio, all’istruzione e alla cultura un rinnovato prestigio sociale, derivante dall’effettiva corrispondenza fra livello di istruzione raggiunto e riconoscimento di status sociale e professionale

Lo Stato stesso ha spinto le nuove leve di lavoratori a specializzarsi, specializzarsi, specializzarsi il più possibile, formando appositi corsi di studi (anatomia della farfalla notturna, logistica del pacchetto natalizio, corsi per future veline… ah, pardon, l’ultimo era reale) con relativi master, master dei master e via dicendo, dimenticandosi poi che queste nuove “figure professionali non professionalizzate” avrebbero dovuto trovare una collocazione nel mondo del lavoro, e quindi anche nella società.
L’istruzione, per chi vuole perseguirla, ha sempre un prestigio, è un valore aggiunto, soprattutto personale, oltre che sociale.

La tensione verso un alto livello culturale deve diventare l’obiettivo in cui ogni italiano si riconosce, perché a elevate competenze corrisponde una maggiore probabilità di realizzazione personale.

Tanti italiani si riconoscono in questo obiettivo, forse troppi.
Tra questi ci sono coloro che puntano ad un pezzo di carta per avere un comodo posto intoccabile dietro a una scrivania, così come coloro che vogliono fare il lavoro che sognavano fin da bambini e che affidano alle sudate carte la loro possibilità di riuscita. In entrambi i casi ci si affida, per il proprio traguardo, ad un dato apparentemente certo: ad elevate competenze non corrisponde la maggiore probabilità di realizzazione personale
Anzi: le elevate competenze sono quelle che ti chiudono le porte nel mondo del lavoro, perché fanno aumentare il costo del tuo compenso.

Serve un’inversione di tendenza, perché il nostro paese spende per l’istruzione pubblica e privata una percentuale del PIL sensibilmente inferiore rispetto agli altri paesi OCSE. La percentuale di diplomati e laureati italiani è inferiore a quella di tutti i paesi europei e le competenze linguistiche, matematiche e di lettura degli studenti italiani, rilevate periodicamente attraverso indagini internazionali, non sono all’altezza di quelle dei coetanei stranieri. Il valore della formazione permanente, utile a rinnovare le competenze lungo tutto l’arco dell’esistenza, non è oggetto di politiche pubbliche. E’ indispensabile che l’Italia impari a riconoscere e premiare il merito, coniugandolo all’effettiva equità nelle condizioni di accesso all’istruzione e alla cultura.

Non ho capacità né conoscenze per ribattere o confermare quanto illustrato. Non mi soffermo quindi sui dati forniti, ma solo sulle ultime righe, che si riassumono in una sola parola, che suona forte e chiara nei desideri di molti cittadini, giovani e meno giovani: MERITOCRAZIA. Come garantirla?
Per trovare risposta ci troviamo invischiati in un meccanismo circolare: il favoritismo degli amici degli amici, la strada mai ostacolata delle scorciatoie, la furbizia considerata dote più importante dell’intelligenza, andrebbero forse a sparire con l’investimento in Cultura.
Quella che serve per aprire la mente, non solo per avere un attestato.
Meritocrazia per avere Cultura e Cultura per avere la meritocrazia.
Poche ore di “educazione civica” alle scuole medie evidentemente non sono sufficienti al fabbisogno nazionale.
L’attestato di etica, purtroppo, nessuno lo rilascia, eppure dovrebbe essere importante quanto una fedina penale pulita.


La disoccupazione giovanile colpisce con particolare virulenza coloro che hanno scelto il settore culturale come campo d’attività professionale. La riduzione delle risorse pubbliche e private e il blocco delle assunzioni hanno drasticamente ridotto la possibilità di uno sbocco lavorativo in questo ambito, benché ancora in anni recenti si siano moltiplicati in modo incontrollato corsi di laurea, scuole di specializzazione e dottorati; il risultato è che si continuano a spendere cifre esorbitanti per formare giovani professionisti dei beni culturali, salvo condannarli a un eterno stato di precarietà e di continuo turn-over, con inevitabile degrado della qualità dei servizi resi ai cittadini. Occorre che al rinnovato impegno dei professionisti della cultura corrisponda un impegno della politica per la difesa e la valorizzazione del capitale umano, per il ricambio generazionale e il rinnovamento dei ruoli direttivi, scientifici e tecnici. Senza personale altamente qualificato e adeguatamente riconosciuto le istituzioni e le aziende culturali muoiono.

Sono concorde su ogni singola riga.
Chi legifera non sa esattamente con quale materia interagisce, motivo principale per il quale la grande offerta di studi più o meno specialistici non trova poi l’assorbimento nel mondo del lavoro di coloro che l’accolgono.
In particolare nel settore dei Beni Culturali.
Spesso chi entra in questo mondo lo fa per amore della bellezza, dell’estro creativo, dello studio del passato. Spera di andare a lavorare presso musei (in effetti chiedono laureati in Storia dell’Arte per lavorare come commessi nei Book Shop), di maneggiare antichi tomi nelle biblioteche, di occupare una cattedra dalla quale insegnare ad un’altra generazione il valore di un patrimonio storico.
Nel campo del restauro lo si fa quasi per Missione, oltre che per passione.
Non conosco nessuno che sia stato chiamato a lavorare o a vedere un lavoro che abbia risposto “no domani non posso”, o che non abbia piegato la testa di fronte ad un contratto poco conveniente o ad un inquadramento sbagliato, quando la ditta dice “perfavore, lo sai che non ci sono soldi”(in caso di sfruttamento, comunque diffuso, il discorso è differente). C'è chi accetta di aprire la partita iva "fasulla", perchè qualcuno lo fa lavorare e non lo può assumere; quella "vera" spesso non serve, perchè arcani motivi burocratici rendono impossibile a taluni lavorare su beni pubblici con un'azienda propria, nonostante accertate competenze.
Conosco pochi che non si siano pagati di tasca loro corsi di aggiornamento che l’azienda non può permettersi di pagare, anche se il capitale professionale va ad aumentarne il valore.
Sorvoliamo sul fatto che la maggior parte sono donne, perché solo per questo ci vorrebbe un capitolo a parte.
Dovreste vederle, le anti veline, arrampicarsi sui ponteggi e portare pesi che un uomo impiegato di banca non riuscirebbe a sostenere, se non gonfiandosi in un’asettica palestra.
Il co.co.pro. e il contratto a tempo determinato sono usuali, in fondo se l’afflusso di lavoro non è costante cosa si può pretendere?
La difesa di questo capitale umano non solo non esiste, ma arriva a prendere le sembianze di un’offesa.
Non si può qui entrare nel merito dell’umiliazione che rappresenta una legge sospesa nel vuoto per almeno un decennio, lo spauracchio di tutti gli operatori e professionisti del settore (l’articolo 182 del Codice dei Beni culturali). Si sappia solo che ha bloccato la crescita professionale di molti neo-formati, che ha favorito non professionisti, che ha equiparato persone appena uscite dall’università, senza nemmeno stage alle spalle, a tecnici che da anni maneggiavano bisturi, pennelli, libri di chimica ed iconografia.

Ormai è una categoria che ride quando, rispondendo alla domanda “che lavoro fai”, di rimando si sente dire “anche un mio zio ridipingeva le seggiole in cantina, in fondo abbiamo tutti un qualcuno che ristruttura in famiglia, e poi toglie le tarme dal legno”, oppure “ho visto che restauravano quella cupola di quell’artista famoso… avete fatto bene a rimetterci i colori, ora sembra nuovo, che pazienza che avete!!”).
Ride meno quando la categoria dei restauratori viene assimilata o confusa a quella degli edili, soprattutto a livello legislativo, nonostante l'immensa differenza di competenze.
Al contrario di come l’opinione pubblica considera i restauratori (alchimisti o falegnami, imbianchini o amanuensi rasentanti l’autismo, a seconda), questi sono figure formate a livello umanistico, scientifico e manuale: operai con un quid in più (anche due o tre).


In realtà è l’educazione al gusto e al bello che manca.
Se esistesse i restauratori sarebbero considerati alla stregua degli idraulici, perché come loro sono indispensabili. Indispensabili al mantenimento della memoria storica del Paese.
Per ogni David di Donatello restaurato, esistono migliaia di opere che rischiano di essere perdute.
Un esempio pratico: per restaurare all’interno del Bargello la celeberrima scultura, sono stati stanziati 200mila euro.
E’ occorso un anno per terminare l’operazione. Operazione di sola pulitura.
Nella realtà quello che accade è molto diverso.
Con la stessa cifra, ammesso e non concesso che le gare d’appalto vengano vinte non facendo massimo ribasso (che bello sarebbe) si sarebbero potute restaurare (facendo una media sommaria)  circa una ventina di opere tra altari, tele grandi formato, sculture ridipinte. 
E guai a impiegare un anno per un lavoro. Non si è mai visto.
I soldi sono pochi. Un tecnico con esperienza si può trovare rimpiazzato da uno spaesato stagista, che non risucchia importante liquidità all’azienda. Ma la qualità ?
Alcune soprintendenze effettuano il sopralluogo di controllo con lo storico dell’arte che si accompagna al restauratore della soprintendenza stessa.
Giustamente pretendono un lavoro fatto con tutti i crismi, a prescindere dallo stanziamento (e son dolori!).
Altre no, l’importante è che costi poco: arrivano a permettere che il restauro, la manutenzione, possano essere fatti da artigiani anche senza i titoli necessari, o gli anni di esperienza. Contro ogni legge e buon senso esistenti.
Le soprintendenze possono valere meno di un committente.
Anche in questo l’Italia è spezzata. Le regole non sono uguali per tutto il territorio. 
Eppure stiamo parlando di dipendenti pubblici che lavorano per un organo ministeriale.
Peccato che siano circa 20 anni che concorsi non ne vengono fatti, che il personale non cambia ed è relativamente poco, portando così poca innovazione e poca presenza sul territorio.
Eppure dovrebbero essere come “angeli custodi”, e saper valutare il valore di un restauratore, lavorare a braccetto con lui.
Andare all’estero? No, grazie.
Eppure, oltre il confine, i restauratori italiani sono considerati un'eccellenza. 
Un altro mestiere forse avrebbe senso altrove. 
Ma non questo, nel Paese col più alto numero di opere d’arte al mondo, nel Paese in cui il restauro affonda le radici. Un controsenso e un'offesa.

Salviamolo, il lavoro di chi vuole salvare la nostra Bellezza!




1 commento:

  1. Penso che tutto dipende da chi ha scritto il testo, insomma da chi proviene l'iniziativa. A quanto pare la cosa è partita dall'AIB Associazione Italiana Biblioteche, che insieme a alcune associazioni come l'Icom International Council of Museums, e l'Anai Associazione Nazionale Archivistica Italiana ha steso la bozza del progetto. Poi hanno deciso di allargare la partecipazione al progetto ad altre "associazioni ed esperti del settore culturale" così dice il giornale dell'arte. Le quali avranno apportato aggiunte, si immagina.

    Il punto di vista del documento pare quindi inevitabile che sia il loro. Poi molte cose sono condivisibili, magari si potessero concretizzare almeno in parte i progetti riportati da loro, sarebbe già moltissimo vista la percentuale minima investita in cultura nel nostro paese. Però sì, hai ragione, l'impressione di una voce "istituzionale" è forte da questo testo, e anche che poi l'appello si rivolga sopratutto alle forze politiche, agli amministratori, in difesa delle istituzioni come biblioteche musei o archivi, e quindi si ponga poco o non molto in difesa di tutti quelli che stanno "fuori dalla porta" delle istituzioni culturali, perché per motivi vari non ne fanno parte, non ne sono stati ammessi.
    Logico che chi lavora in una biblioteca, in un archivio, in un museo e il lavoro ce l'ha già, chiede risorse, più risorse per la sua struttura... Ha meno, molto meno interesse a chi se ne sta "fuori", che l'università l'ha fatta, ma non riesce a "entrare"... è tutto un fatto di prospettiva direi...

    Poi anche che rispetto ai commenti sul loro sito, nessuno di loro intervenga, già questo ti dà una idea di come l'appello non sia visto come un possibile dialogo con tutte le forze della cultura, ma come un appello che ha come obiettivo le forze politiche, chi decide e chi avrà il potere per farlo dopo le elezioni

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